Conoscere per deliberare

Questa concezione cominciò a fare acqua quando la grande industria fordista si trovò a misurare la sua rigidezza e la sua lentezza decisionale con un mercato che cresceva in ampiezza, vivacità e diversificazione della domanda.
Un primo passo, decisivo, verso il cambiamento fu compiuto, particolarmente in Italia, con la diffusione delle piccole e medie imprese, che erano in grado di proporsi al mercato con maggiore flessibilità e velocità di adeguamento; detto per inciso, è in questo periodo che l’Italia comincia a diventare un Paese industriale nel senso pieno del termine.
 
Ma il salto decisivo si compie in dipendenza di due fattori fondamentali: da un lato l’esplodere della concorrenza dei Paesi emergenti che, fondandosi sull’imitazione e sul lavoro a basso costo, mette fuori gioco molte produzioni tradizionali, soprattutto italiane, dall’altro l’accelerazione dell’innovazione (nella tecnologia, nell’elaborazione dati, nell’informazione) che rende rapidamente obsolete esperienze lungamente consolidate e distrugge rendite tecnologiche apparentemente inattaccabili.
 
Tutto ciò, in buona sostanza, significa che confrontarsi con questa situazione, per larga parte irreversibile, richiede di ripensare l’impresa fin dai suoi fondamenti; significa recuperare la centralità della creatività contro la ripetitività, della persona contro l’organizzazione. Ecco, allora, che le persone diventano (e non solo a parole) il patrimonio fondamentale di ogni impresa, l’asset su cui concentrare gli investimenti. Una conseguenza collaterale, ma niente affatto trascurabile, è che la dimensione d’azienda si riduce d’importanza di fronte alle capacità creative che possono essere e attuate concretamente anche da un piccolo gruppo di persone, se non di una persona sola.
 
Se, però, le risorse umane diventano sempre più un patrimonio fondamentale dell’impresa, è indispensabile che questo patrimonio non sia soltanto mantenuto, ma anche, e soprattutto, arricchito continuamente, per tenere testa al procedere dell’innovazione in ogni campo, e al continuo bruciarsi delle esperienze.
In altre parole, investire in conoscenza, progressiva e continua, diventa una strategia essenziale per il successo dell’impresa.
Sul tema della conoscenza sono fondamentali gli studi di Giacomo Becattini, che, in un suo notevole lavoro pubblicato nel 1989, definiva due forme di conoscenza: quella “codificata” che deriva dall’istruzione e dalla formazione professionale, quella “contestuale” che proviene da esperienze e da “segreti del mestiere” tradizionalmente maturate nel territorio (un po’ come le calzature nel Fermano o i cappelli di paglia di Montappone).
 
Da questo punto di vista, l’esperienza Loccioni presenza qualche anomalia positiva.
L’avvio imprenditoriale di Enrico Loccioni si fonda su una conoscenza codificata sostanzialmente debole: solo molto più tardi si meriterà a pieno diritto una laurea “honoris causa”, ma all’epoca è solo un semplice perito tecnico elettricista; e, allo stesso modo, non può fare conto su una conoscenza contestuale in un territorio che non ha alcuna tradizione nelle tecnologie sofisticate.
La “marcia in più” di Loccioni è la curiosità: una curiosità inesauribile per le cose, le persone, i processi, i macchinari, e una straordinaria capacità di assorbirla e di generare quella conoscenza che si trasforma in innovazione concreta.
Questo, sommariamente, è ciò che definisce “impresa della conoscenza”, che il Gruppo Loccioni merita ad ampio titolo.
 
Ma, come l’imprenditore responsabile reinveste i suoi profitti monetari a vantaggio dello sviluppo suo e del territorio in cui opera, così la conoscenza acquisita dall’impresa dovrebbe essere reinvestita a favore dell’ambiente sociale circostante, generando spin-off e indotto innovativo.
 
È l’aspetto, per così dire, dell’impresa della conoscenza; quello che diffonde, come in una semina fertile, le logiche dello sviluppo.

Mario Bartocci

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