La persona al centro dell’apprendimento

Le organizzazioni, infatti, almeno nella prospettiva che adottiamo, non sono interessate a coltivare apprendimenti “esclusivi”, quelli che si aprono e chiudono entro la sfera dell’individuo. Che senso avrebbe se pensiamo all’impresa come un luogo ove far crescere l’umanità? Quale valore aggiungerebbe al suo progetto comunitario? Che benefici potrebbe portare un apprendimento isolato ai clienti che l’impresa serve, al territorio di cui si nutre e che alimenta, ai numerosi stakeholder che formano il suo tessuto connettivo? Tutte ragioni che spiegano perché il lavoro di chi è impegnato a sviluppare conoscenza si esprime nella costruzione di ambienti, nel disegno di sistemi, nella diffusione di pratiche e nell’utilizzo di strumenti che consentano alla conoscenza individuale di diventare organizzativa; che permettano alla persona, alle sue capacità e vocazioni, di dialogare ed essere parte di una comunità.
 
Le imprese centrate sulla creazione e gestione della conoscenza, quindi, si cimentano continuamente nella sperimentazione di pratiche di “socializzazione”. Se le guardiamo da questa prospettiva, le imprese sono state sempre social perché luoghi ove si sviluppa apprendimento organizzativo. Quando questo non succede l’impresa sfiorisce; e con essa le persone e le idee che appassiscono strozzate dall’afa individualista che le prende alla gola.
 
Imprenditori, manager e collaboratori, allora, hanno a disposizione una metrica efficace per misurare il contributo che danno al progetto in cui lavorano, ossia quanta conoscenza sono riusciti a mobilitare portandola dalla dimensione tacita a quella esplicita, così da renderla socialmente fruibile e vitale. Ricorrendo a una metafora potremmo dire che l’efficacia del lavoro di chiunque in un’impresa può essere misurata valutando quanta conoscenza si è stati capaci di far scorrere, come si fa scorrere l’acqua. Questa infatti, lo sappiamo bene, è una sorgente inesauribile di energia e vita, ma se rimane ferma presto imputridisce, perdendo così di valore perche non più fruibile dall’individuo e dalla comunità. Può accadere anche alle organizzazioni se rimangono ferme, se sviluppano cioè atteggiamenti e culture improntati alla chiusura che diventano potenti e minacciose barriere all’ingresso per l’innovazione e per il gioco operoso. Questa staticità può prendere tutte le direzioni e manifestarsi in molte forme. Può andare verso l’alto e verso il basso, ma anche irrigidire le relazioni tra pari, quelle orizzontali. La staticità può riguardare l’interno e l’esterno.
 
Possiamo essere chiusi verso i clienti e le loro esigenze, per esempio quando non riusciamo a vestire i loro panni e cerchiamo di far indossare loro abiti di cui non hanno bisogno e già solo per questo “fuori moda”. Si può essere chiusi però anche verso tanti altri soggetti che potrebbero invece dare un contributo decisivo per “smuovere” l’acqua organizzativa, mantenendola sempre fresca e pulita. Come un vero e proprio bene comune cui poter attingere tutti con rispetto. Si fa presto allora a dire che la persona è al centro dell’apprendimento se prima non si condivide una visione dell’uomo e dell’impresa coerenti. Sarebbe solo retorica, una delle tante che si succedono e che accompagnano la produzione di miti.
 
Per questo, siamo convinti che nelle organizzazioni non c’è spazio per coltivare e valorizzare logiche individualiste. Nelle imprese fondate su progetti di valore e comunitari possono attecchire solo applicazioni “inclusive”, quelle che tengono insieme idee e valori, tecnologia e persone, benessere di molti e territorio.
 
Gabriele Gabrielli